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Università degli Studi di Palermo

Dipartimento di Studi Europei (D.E.M.S.)

 

 

 

 

 

La cittadinanza

nel pensiero politico americano

 

 

a cura di Dario Caroniti

 

 

 

 

 

 

 

 

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Studi su Politica, storia e istituzioni

Supplemento a Storia e Politica - Anno VI - 2014

 

Prefazione

Dario Caroniti                                                                                  4

 

Democrazia e cittadinanza. Origini e temi di un dibattito

Franco Maria Di Sciullo                                                                   6                                                      

Cittadinanza e repubblicanesimo

Giuseppe Bottaro                                                                           35

                                                          

Ralph Waldo Emerson. Il popolo di uomini e l’American idea

Dario Caroniti                                                                                58

 

Il progressismo tra realismo, riformismo e allargamento della cittadinanza

Giovanni Dessì                                                                               79

 

Cittadinanza democratica ed etica della cura

Maria Pia Paternò                                                                         106

 

 

 

 

Prefazione

 Il tema della cittadinanza come questione politica per eccellenza è l’oggetto di una riflessione che attraversa la storia del pensiero politico americano dai padri fondatori fino ai teorici dell’«etica della cura». Non è certo una trattazione esaustiva di tutte le problematiche poste dalla relazione tra la cittadinanza e la democrazia nella tradizione politica degli Stati Uniti, quanto un tentativo di  esporre alcune delle risposte più significative che siano state date da una società politica che si è caratterizzata per la sua inclusività. In cinque saggi sono analizzate le teorie dei padri costituenti, dei trascendentalisti, dei progressisti, spingendosi fino ai più recenti dibattiti della filosofia politica contemporanea. Un filo sottile lega però tra loro tutte le diverse correnti di pensiero qui esposte: lo sforzo di trovare una conciliazione tra il pluralismo e la comune appartenenza a un ordine politico, oltre alla fiducia quasi incrollabile nelle possibilità che l’uomo e, in particolare, l’uomo americano, sia capace di realizzarla.

Ciò che sembra emergere dai cinque saggi è che il pensiero politico americano, indipendentemente dalle diverse correnti intellettuali e le differenti fasi storiche, abbia cercato di elaborare una risposta, per quanto originale, alle problematiche poste da Aristotele, Cicerone e Agostino riguardo al significato della comunità politica. Si può individuare così una ricerca dell’ordine giusto intorno al quale una moltitudine decide di associarsi, dando vita a un popolo. Netto è invece il rifiuto della svolta, operata da Fortescue, che nel suo De laudibus legum Angliae afferma invece che un ordine politico diventa tale solo quando dal popolo emerge un capo – ex populo erumpit regnum. L’attenzione della letteratura politica europea dopo Fortescue si sposta dall’individuazione dell’ordine giusto alla capacità del capo di reggere il corpo politico, quindi al rapporto di forze e agli assetti giuridici che compongono l’ordine.

Fin dalla Dichiarazione di indipendenza, al contrario, in America si può rintracciare il tentativo opposto di affermare la validità dei principi autonomamente dal soggetto che li esprime e li incarna, che sia esso il re, il parlamento o lo stato. Ciò implica uno sforzo elaborativo che implica la definizione di popolo e un’idea di cittadinanza che sono premessa alla riflessione politica. Democrazia e cittadinanza si trovano quindi strettamente connessi e non basati su una piattaforma giuridica, quanto su una condivisione ideale.

I padri fondatori cercarono di radicare il popolo americano sui principi del giusnaturalismo, ma con espressi richiami alla trascendenza, che marcano una distanza radicale da tutta la letteratura politica illuminista europea. I trasendentalisti, con Emerson, cercarono poi di fondare l’oggettività dei medesimi principi sul carattere appunto trascendente della natura dell’uomo. Anche la critica moralistica dei progressisti alla corruzione politica è basata sulla comune affermazione di principi nei quali la comunità politica americana si è storicamente riconosciuta, alla luce dei quali adottare degli interventi legislativi che possano restaurare l’american way of life mediante un intervento dello stato. È cessata in loro quella fiducia nell’autonomia dell’individuo dallo stato, ma resta la fede nei principi che sono premessa e alimento dello stato stesso.

Anche nel femminismo di Gilligam, Benhabib e Tronto, pure essendo scomparso ogni richiamo alla trascendenza, mutato decisamente e definitivamente il fondamento ideologico, è però evidente il tentativo di affermare preliminarmente i principi sui quali fondare l’etica della cura. L’oggettività di essi non la si può certo ritrovare nell’affermazione del Summum bonum, ma attraverso un approccio filosofico post kantiano esse cercano di stabilire l’intervento pubblico in opposizione al diritto del più forte, per sostenere una politica solidale che abbia attenzione, cura, per le donne e gli uomini che compongono una comunità.

Dario Caroniti

 


 

 

Ralph Waldo Emerson.

Il popolo di uomini e l’American idea.

 

 

1.    L’Uomo che pensa

 

Negli anni della Rivoluzione, la composizione etnica del popolo americano che abitava le colonie era ancora quasi del tutto omogenea. Ad eccezione degli afroamericani, la gran parte della popolazione era di origine inglese o scozzese. Il distacco dalla madrepatria non era avvenuto in virtù di una rivendicazione di diversità di stirpe, di lingua o di cultura, ma per una differente concezione politica. La Dichiarazione di indipendenza – scaturita dalla rivendicazione del diritto storico costituzionale alla rappresentanza (no taxation without representation) – l’atto costitutivo della nuova nazione americana, il fondamento comunitario del nuovo popolo, proclama i diritti naturali, tra i quali il diritto alla vita, alla libertà e alla ricerca della felicità, uguali per tutti, base di un ordine giusto sul quale la comunità americana si sarebbe costituita. (Caroniti 2008: 15-34).

Nel corso del XIX secolo, la conflittualità tra le diverse sezioni del paese pose dei problemi che il contrattualismo lockiano, a quei tempi cultura politica di riferimento della gran parte del pensiero politico americano, stentava a risolvere. Nel momento in una intera sezione del paese metteva radicalmente in discussione il pactum, il medesimo volontarismo che ne era fondamento diventava elemento cardine della disunione: se i popoli degli stati decidevano a larghissima maggioranza di rompere il contratto sociale, non ci si poteva certo appellare a una diversa volontà espressa vari decenni prima. Così come dei popoli avevano liberamente deciso di unirsi, gli stessi decidevano adesso di sciogliersi, rimettendo in discussione lo stato federale. A questo si aggiungeva la massiccia emigrazione proveniente prima dall’Europa e poi dall’Asia, che sconvolse progressivamente la composizione etnica degli Stati Uniti (Martin 2014: 47-76).

A opporsi a queste spinte centrifughe intervenne quello che Matthiessen definì il movimento romantico americano, il trascendentalismo (Matthiessen 1954: 3-14). Al suo interno furono elaborate le risposte alla crisi di crescita della comunità americana. Grazie all’emergere di una letteratura tipicamente americana, sensibilmente distinta da quella inglese, si iniziano a intravedere i tratti culturali di una nazione a sé stante, espressamente descritta nei suoi tratti salienti da Ralph Waldo Emerson. La così detta «nazione di uomini» da lui definita nel celebre discorso del 1837 per l’inaugurazione dell’anno accademico ad Harvard, diversa dalle altre per le opportunità che all’interno degli Stati Uniti gli americani godono. Questa comunità nazionale si distinguerebbe per il recupero della dimensione autenticamente umana, altrimenti avvilita dall’identificazione tra l’uomo e la mansione da lui svolta nel mercato del lavoro:

 

La vecchia favola cela un insegnamento sempre nuovo e sublime; che cioè c’è un Uomo, presente in tutti i singoli uomini soltanto parzialmente, o attraverso una facoltà; e la favola dice anche che bisogna prendere l’intera società per trovare l’intero uomo. L’uomo non è né un contadino, né un professore, né un ingegnere, ma tutte queste cose insieme. L’uomo è prete, studioso, statista, economista e soldato. In uno stato diviso o sociale queste funzioni sono distribuite tra i singoli individui ciascuno dei quali ha per scopo l’adempimento di ciò che gli è stato assegnato del comune lavoro, mentre un altro lo porta a termine. La favola sottintende che l’individuo, per possedere se stesso, deve di tanto in tanto allontanarsi dal suo proprio e specifico lavoro per abbracciare tutti gli altri suoi simili.

 

Nella realtà sociale, ci dice però Emerson, questa dimensione originaria dell’uomo si è svuotata, ha subito una vera e propria amputazione, che «ha trasformato l’uomo in una cosa»:

 

Il coltivatore, cioè l’Uomo inviato nei campi per raccogliere cibo, raramente è consolato dal pensiero dell’autentica dignità del suo lavoro. Egli bada alle misure, al carro, ma non vede al di là di queste cose, e affoga nelle condizioni del contadino, invece di serbarsi Uomo nella fattoria. L’uomo d’affari raramente attribuisce un valore ideale al suo lavoro, è invece trascinato dalla routine della sua professione, e l’anima è schiava dei dollari. Il prete diventa una vuota forma; il legale un libro di leggi; il  meccanico una macchina; il marinaio, la gomena di una nave (Emerson 1962: 128-129).

 

Recuperare l’unità originaria è il compito dello studioso, «l’intelletto delegato alla distribuzione di queste funzioni», «l’Uomo che Pensa», che va però distinto sia dal «pensatore puro», che dal «pappagallo del pensiero altrui» (Emerson 1962: 129). Non si tratta quindi dell’intellettuale che si astrae dal resto della società, ma al contrario dell’uomo che riacquista la capacità di contemplazione dell’universo a prescindere dalla condizione lavorativa o economica nella quale si trova. Che riesce ad essere «affascinato» dallo spettacolo della natura, dal sole dal tramonto, dalla notte e dalle stelle, perché coglie le intime connessioni tra essa e la propria natura:

 

Corre fra la gente l’opinione che lo studioso debba essere un recluso, un malaticcio inadatto a qualsiasi lavoro manuale o impegni pubblici, come un temperino per un’ascia. Il così detto «uomo pratico» schernisce l’uomo speculativo, quasi che questa categoria, per il solo fatto di speculare o di vedere, sia inadatta a fare alcunché. Ho sentito dire che il clero – che è sempre, in maniera più universale di qualsiasi altra classe, il gruppo di studiosi del proprio tempo – viene abbordato come fossero donne; che non sente la rude, spontanea conversazione degli uomini, ma solo un linguaggio largamente indebolito e affettato. Spesso viene virtualmente privato dei suoi diritti civili, e ovviamente fa l’avvocato difensore del proprio celibato. Per quanto tutto ciò possa essere vero della classe degli studiosi, tuttavia non è né giusto né saggio. L’azione è certo un fatto secondario per lo studioso, ma essenziale» (Emerson 1962: 135).

 

2. L’homònoia americana

 

Mentre le similitudini tra l’Uomo di Emerson, l’uomo totale di Marx o anche il superuomo nietzschiano sono state più volte oggetto di approfondimento (Levine, Malachuk 2011: 12, 91, 223), molto meno lo sono state quelle con il bios theoretikòs aristotelico.  Tanto più che l’attività contemplativa descritta da Emerson si svolge nel tempo libero da impegni di lavoro, non impiegato ad assolvere ai bisogni materiali. Nell’Etica Nicomachea, Aristotele pone in stretta relazione la «libertà dagli impegni» (la skolè)  con la felicità, l’eudaimonìa (Aristotele: X, 1177b4). La possibilità di impiegare parte della giornata in attività contemplative, che non assolvono ad esigenze legate al bisogno, ma che vengono svolte per il proprio benessere intellettuale,[1] è un carattere distintivo dell’uomo maturo (lo spoudàios), che è l’unico ad essere veramente libero perché vive secondo virtù:

 

Se la felicità è attiva secondo virtù, è ragionevole che lo sia secondo la più eccellente, e questa verrà a essere la virtù di ciò che è migliore. Quindi, o che l’intelletto sia ciò che è ritenuto comandare e dominare per natura e avere nozione delle cose belle e divine, o che sia qualcosa d’altro; o che l’intelletto stesso sia divino, o che sia la cosa più divina che è in noi, la sua attività secondo la virtù propria verrà a essere la felicità perfetta. Che è un’attività teoretica (Aristotele: X, 1177a12).

 

Come scrive Christopher Lasch (Lasch 1992: 245-248), Emerson  recupera aspetti importanti del repubblicanesimo e, tra essi, proprio il bios theoretikòs, che del repubblicanesimo è premessa, e lo fa quando afferma che «l’unico autentico padrone» è l’uomo pensante, colui che di tanto in tanto si allontana «dal suo proprio e specifico lavoro per abbracciare tutti i suoi simili» (Emerson 1962: 128). L’uomo di Emerson non si riduce quindi all’homo faber dell’illuminismo voltairiano che, grazie al progresso, migliora indeterminatamente le proprie condizioni fino a raggiungere la pienezza esistenziale nella realizzazione economica e sociale, facendo così coincidere benessere e ricchezza (Voegelin 2004: 35 e sg.). A fianco del successo materiale e quasi a conclusione e coronamento di esso, il libero impiego del tempo libero per attività intellettuali e spirituali è, invece, per Emerson il tratto essenziale che caratterizza «il vero studioso», colui che «la natura rallegra con tutte le sue serene, ammonitrici visioni» (Emerson 1962: 129).

Il ragionamento di Emerson non è però finalizzato a spiegare in modo generale l’uomo che vive secondo virtù ma, in particolare, lo studioso americano. Figura che assume in sé sia una dimensione individuale che collettiva, fino a comprendere il carattere stesso del popolo americano:

 

Non è la peggiore disgrazia non essere, nel mondo, una unità, non essere stimato un carattere, non fare fruttare quel peculiare frutto per portare il quale l’uomo fu creato, ma essere valutati, nella massa, nelle centinaia, nelle migliaia, di persone appartenenti a un partito, una fetta di cui facciamo parte, e la nostra opinione pronosticata geograficamente come il nord o il sud. No, non così cari amici e fratelli – ti prego, Signore, fa che non sia così di noi. Cammineremo sui nostri piedi, lavoreremo colle nostre sole mani, parleremo con le nostre menti. Lo studio delle lettere non dovrà più essere un nome per la pietà, per il dubbio, per una sensuale clemenza. La paura dell’uomo e l’amore per l’uomo sarà un muro di difesa e un festone di gioia intorno a tutto. Una nazione d’uomini, per la prima volta, infine, esisterà, perché ciascuno crede in sé, ispirato da quell’Anima Divina che ispira anche tutti gli uomini (Emerson 1962: 149).

 

L’individualismo americano, del quale Emerson traccia qui i caratteri, come notano Levine e Malachuk, non ha nulla di apolitico (Levine e Malachuk 2011: 15 e ss. ) e non porta alla disgregazione sociale, perché è basato sul recupero, da parte di tutti e di ciascuno, della completa dimensione umana, tramite l’ispirazione all’anima divina che gli uomini accomuna:

 

Noi vediamo il mondo pezzo per pezzo, come il sole, la luna, l’animale, l’albero; ma il tutto di cui queste cose sono parti splendenti è l’anima. Solamente attraverso la visione di quella Sapienza l’oroscopo delle età può essere letto, e facendo ricorso ai nostri pensieri migliori, sottomettendoci a quello spirito di profezia che è innato in ogni uomo, possiamo arrivare a conoscere che cosa essa dica (Emerson 1991: 159).

 

Quanto alla filosofia di riferimento, Emerson si richiama espressamente a Platone, tuttavia, come nota Flanagan, per lui «le similitudini tra Platone e Aristotele sono più rilevanti delle loro differenze» (Flanagan 2011: 456), ed è proprio Aristotele, nell’Etica Nicomachea, ad affermare che l’intelletto (il nous) sia cosa divina rispetto all’essere umano e che la vita secondo l’intelletto sia «divina rispetto alla vita umana» (Aristotele: X 1177b30). L’amore per il proprio io noetico costituisce infatti il vincolo che salda gli uomini in unità, rendendo possibile la concordia spirituale tra gli uomini, l’homonoia, che sta alla base della philìa politike, quell’amore della comunità politica che mette insieme gli uomini rendendoli tra loro amici e che è reso possibile da una storia comune, quindi da origini comuni, ma soprattutto da una condivisione di principi e aspettative:

 

Le città sono in stato di concordia quando hanno le stesse idee sui loro interessi, fanno le stesse scelte e mettono in pratica quello che hanno deciso insieme (Aristotele: IX 1167a26).

 

Anche secondo Aristotele, per altro, questa concordia non si raggiunge rifugiandosi in una concezione tribale dell’esistenza, che confinerebbe il suo io noetico nella massa o nel partito, a prezzo di dovere rinunciare in tutto o in parte al bios theoretikòs. La comunità è per lui basata sull’amicizia, e Aristotele chiarisce che i rapporti di amicizia che si hanno con gli amici derivano da quelli che si hanno verso se stessi (Aristotele: IX 1166a2). È amico chi si addolora e gioisce insieme a chi ama, perché desidera per gli amici lo stesso bene che però, allo stesso modo, desidera per se stesso. La comune amicizia si fonda per questo sulla comune affermazione del bene, riconoscibile tramite la comune partecipazione al nous divino (Soressi 2004: 32). Egli così distingue tra uomini «dabbene» e uomini «dappoco», i quali non riescono ad essere amici, semmai «cercano con chi passare la giornata e fuggono se stessi» (Aristotele: IX 1166b14).

Questa concezione dell’amicizia è condivisa da Emerson (Lysaker 2013: 166), secondo il quale l’America rappresenta l’opportunità di costituire una comunità di uomini «dabbene» nel senso aristotelico (Flanagan 2011: 456-459). Il suo «popolo di uomini» non è il risultato di una fusione degli individui in una unità nazionale che estenda i caratteri genetici dell’appartenenza, fino ad assorbire ogni identità  e, con essa, l’intelligenza o anima divina che è in ogni singolo. Semmai la fusione, lo smelting pot, come lo definisce Emerson, non si colloca in un passato costituente la nazione americana quanto nel suo destino:

 

L’uomo è la più composita di tutte le creature. … Come nel tempio di Corinto, grazie alla fusione e alla commistione di oro e argento e altri metalli, si creò una nuova lega, più preziosa che mai, detta “ottone di Corinto”, allo stesso modo nel continente - asilo di tutte le nazioni – l’energia di irlandesi, tedeschi, svedesi, polacchi e cosacchi  e di tutte le tribù sia europee, che africane, che anche della Polinesia costruirà una nuova razza, una nuova religione, un nuovo stato, una nuova letteratura, che sarà tanto vigorosa come quella della nuova Europa che era venuta fuori dallo smelting pot degli anni bui del Medio Evo o quell’altra che era emersa dal barbarismo pelagico ed egizio. La natura ama gli incroci (Emerson 1912: 115-116).

 

 L’essere «asilo di tutte le nazioni» rappresenta l’occasione storica per fare degli Stati Uniti d’America il luogo di incontro delle diverse razze attualmente esistenti. Ciò non comporta alcun problema per la comunità. Al contrario, ne è una sorta di elemento costitutivo. Quanti sono arrivati sulle sponde dell’Atlantico in cerca di fortuna e di autorealizzazione sono destinati a incontrarsi con altri uomini provenienti da tutta Europa e dalle più varie parti del mondo per realizzare con essi un nuovo ethnos. È per questo che Emerson non usa il termine melting pot, che indica un crogiuolo di razze, ma smelting pot, proprio per indicare la fusione che sta per avvenire e che darà luogo a un evento paragonabile alla nascita della grande civiltà europea (Carter 2007: 59). Dopo la caduta dell’impero romano e le diverse invasioni barbariche, il popolo europeo era radicalmente mutato, fino a raggiungere una nuova forma di unità, dalla quale era emersa una nuova cultura, una religione comune e una organizzazione politica.

Seguendo questo ragionamento, si deve dedurre che, secondo Emerson, l’evidenza della crisi europea sia stata esemplificata dalla riforma protestante e dalla disgregazione dell’Europa in diversi stati nazionali. La irreversibile corruzione del vecchio continente è manifesta nella sedimentazione del particolarismo, religioso, culturale e nazionale evidenziatosi dal XVI al XIX secolo. Sembra invece che l’America abbia mostrato di riuscire a superarla mediante una nuova visione universale, che non casualmente Emerson definisce in modo ricorrente «cattolica»[2]. Questa viene supportata essenzialmente da una unione razziale, che non può quindi tollerare alcuna divisione tra bianchi e neri, e da una cultura che non si ponga come mera ripetizione o anche continuazione di una delle vecchie culture europee, ma sia in grado di proiettarsi in una dimensione nuova.

Anche sul piano della religione egli è convinto che tale fusione possa generare una nuova appartenenza di fede. Essa deve però superare le divisioni precedenti senza dare adito a nuovi particolarismi: non una nuova chiesa, ma il recupero della cattolicità, senza pontefici, cardinali e vescovi, grazie alla responsabilizzazione individuale e all’altissima valorizzazione dell’Uomo (Birdsall 1959: 274).

L’elemento cardine sul quale ruotano le aspettative emersoniane sta nelle particolari opportunità che si presentano al popolo americano e che finiscono per accomunarlo, nonostante le diverse provenienze e le intrinseche individualità che lo compongono. Tra essi una peculiare occasione storica è data dalla diffusa alfabetizzazione, dovuta alla comune abitudine alla lettura della Bibbia, alla quale accede la gran parte della popolazione. Essa compensa, nella visione di Emerson, la mancanza dei grandi picchi intellettuali che caratterizzavano invece la cultura europea, e costituisce anche il carattere identitario, democratico nella sua essenza, non necessariamente colto ma informato e quindi consapevole del popolo americano, che ha reso possibile la fiducia in se stessi, che fa credere «nel proprio pensiero, credere che ciò che è vero per noi, nella nostra vita interiore, è vero per tutti» (Emerson 1962: 37).

La comune appartenenza a un vastissimo ceto medio - Emerson definisce espressamente gli Stati Uniti «questo paese di ceti medi» (Emerson 1962: 202) - non prevede contrapposizioni di interessi e di culture. L’America non è un posto in cui la borghesia abbia prevalso sulle altre classi, ma dove si è realizzata una sostanziale convergenza tra quanti hanno voluto sviluppare la propria personalità in modo indipendente, trovando che tale maturazione li ha spinti poi a legarsi intimamente raggiunta con le particolari opportunità fornite dal territorio, dalle istituzioni, dalle credenze religiose e dalla società. Gli Stati Uniti sono quindi un luogo fisico, culturale e politico che consente all’uomo che, in quanto uomo, è sempre «dabbene», di cogliere le opportunità della propria maturazione. Non sono meramente la nazione dei self made men. Nel suo elogio funebre del presidente Abramo Lincoln, egli dice:

 

Il Presidente fu ai nostri occhi come un uomo del popolo. Egli fu interamente americano, non attraversò mai il mare, non fu mai corrotto dall’insularismo inglese o dalla dissipazione francese; fu un autentico indigeno, un uomo della sua terra, come la ghianda lo è di una quercia; non scimmiottò gli stranieri, non compì frivolezze: uomo del Kentucky, lavorò in una fattoria, fu battelliere, capitano nella guerra contro Black Hawk, avvocato di campagna, deputato nella legislatura per la legge rurale nell’Illinois (Emerson 1962: 199).

 

Qui si può anche cogliere il contrasto tra le umili origini e il successo, tipico dell’uomo che si fa da sé, ma l’aspetto di  maggiore interesse è la poliedricità di Lincoln, che non cessa di essere lavoratore in una fattoria, capitano dell’esercito e avvocato di campagna, anche quando viene eletto deputato e poi Presidente della repubblica. È in questo senso che egli appartiene al ceto medio, perché la sua elezione non è il frutto di una scalata sociale, ed è esattamente per questo che Emerson lo considera il vero presidente della nazione americana.

L’armonia del popolo americano non dipende dall’unione di stirpe, credo e cultura. Il massiccio arrivo di immigranti irlandesi non deve quindi in alcun modo spaventare l’ordine della comunità, così come l’emancipazione dei neri è da leggere come una opportunità di crescita e il Proclama dell’emancipazione come «un atto poetico e memorabile» (Emerson 1962: 191), avendo esteso, anche a chi prima l’aveva negata, la libertà di potere conformare la propria anima a quella divina, ribadendo i principi sui quali la nazione americana si fonda. L’american idea, basata sulla più estesa forma di dignità che possa consentire a chi è cittadino americano di vivere pienamente la propria esistenza, portando al massimo le proprie potenzialità, diventa così l’homònoia americana.

 

3. L’unità indissolubile della comunità politica americana

 

Il trascendentalismo si basa su una idea altissima di uomo, che estende le sue potenzialità fino a raggiungere la volta celeste (Emerson 1904: 10). La filosofia che lo ispira si richiama a Victor, la cui influenza sul trascendentalismo, come nota Robert Sattelmeyer, non è mai stata sufficientemente analizzata e valutata (Sattelmeyer, 2014, p. 22; Joyaux 1955: 117-130). Questi aveva teorizzato che le capacità cognitive dell’uomo si fondassero sulla sua capacità di fare in vita l’esperienza del divino: l’uomo conosce il mondo perché vede il suo creatore (Cousin 1861: 33 e ss.). La beatitudine, la capacità di contemplare Dio, non è quindi riservata alla vita ultraterrena, ma è la base della stessa conoscenza:

 

(Gesù Cristo) ha visto con gli occhi aperti il mistero dell’anima. Attirato dalla sua severa armonia, rapito dalla sua bellezza, visse in essa, in essa fu. Egli solo in tutta la storia ha stimato la nobiltà dell’uomo. Un solo uomo fu fedele a ciò che è in voi e in me. Vide che Dio incarna se stesso nell’uomo, e sempre di nuovo procede a prendere possesso del suo Mondo. Egli disse nel giubilo della sublime emozione: «Io sono divino, Attraverso me, Dio agisce; attraverso me parla. Se vuoi vedere Dio, guardami; o guardati, quando anche tu pensi come io penso adesso» (Emerson 1991: 101).

 

Partendo da queste premesse il trascendentalismo ipotizza la realizzazione di un ordine politico che doni all’uomo non solo la possibilità di concepire queste altezze ma di realizzarle concretamente nella sua vita terrena. Non lo fa però immaginando una rivoluzione che alteri il corso della storia, ma allineandosi a un percorso storico già tracciato dalla Provvidenza, che ha riservato agli americani questa immensa ma anche concreta opportunità. Il progressista americano dell’Ottocento non è quindi politicamente un rivoluzionario, perché ritiene che le istituzioni del paese e la sua costituzione rappresentino la struttura di questa eccezionale condizione, tanto da consentire l’affermazione più che di un «io posso», di un «noi possiamo» (Ledeen 2000: 58-59). L’opportunità non è però riservata solo a chi è nato in America. Essere americano è una condizione di arrivo, non necessariamente di partenza.

La nazione di uomini di Emerson è composta da chi vuole essere uomo, quindi non solo da chi è di origine inglese e neppure europea. L’America è il luogo ideale nel quale tutti gli uomini provenienti da ogni parte del mondo possono realmente raggiungere la pienezza della loro esistenza. È per questo che egli respinge in toto l’attacco degli stati del Sud a quello che egli considera un fantastico idillio: l’Unione, per lui, non è soltanto un patto volontario ma è provvidenziale, è la stessa essenza dell’unico popolo americano (Myerson 2000: 71). La diatriba se a sottoscrivere la costituzione - We the people of the United States – fosse stato i popoli o il popolo degli Stati Uniti viene quindi da Emerson e dagli altri trascendentalisti risolta senza appello nel senso di una unità indissolubile. Emerson condanna lo schiavismo come del tutto estraneo a una cultura che si basa sulle uguali opportunità di partenza (Emerson 2006: 74-76) e, soprattutto, nega più che il diritto la stessa possibilità che una parte del popolo americano possa abbandonare l’Unione, perché atto che al tempo stesso rifiuto dell’appartenenza nazionale e delle magnifiche sorti ad esso destinate dalla storia. I sudisti debbono così essere indotti, loro malgrado, con la forza, con la guerra, a rimanere, nel loro stesso interesse, parte dell’unica nazione che possa dare agli uomini l’opportunità di essere compiutamente tali:

 

Il fine di ogni battaglia politica è stabilire la moralità come fondamento di tutta la legislazione. Il suo vero fine non sono le libere istituzioni, né la repubblica e neppure la democrazia, che ne sono invece i mezzi. La morale è l’oggetto del governo. Noi vogliamo uno stato di cose in cui il crimine non paghi. Questa è la nostra consolazione per l’oscurità del futuro e le afflizioni odierne, che il governo del mondo sia morale e distrugga per sempre ciò che non lo è (Emerson 2007: 545).

 

L’individualismo emersoniano si differenzia profondamente non solo da quello degli agrari del Sud, ma più in generale da Jefferson e da molti dei padri fondatori. Lo spazio di indipendenza dell’individuo stesso è per lui circoscritto dalla grande anima della natura (Bloom 1994: 44). L’affermazione dell’intelligenza individuale come parte dell’intelligenza divina restringe di fatto la gamma di scelte morali, nonostante Emerson escluda categoricamente ogni forma di conformismo o di scolastica (Emerson 1904: 15). Quando nel suo saggio del 1844 sulla Politica egli scrive che «bisogna confidare con decisione nella benefica necessità che brilla attraverso tutte le leggi» afferma espressamente l’esistenza di una intelligenza comune. Egli è perciò convinto che la natura umana si esprima nelle leggi «come nelle statue, nelle canzoni o nelle ferrovie», tanto che «un estratto dei codici delle nazioni sarebbe una trascrizione della coscienza comune». L’ordine politico ha quindi la propria origine «nell’identità morale degli uomini», questo perché ciò che è razionale per un individuo lo è necessariamente per ogni altro:

 

La ragione per uno è da considerare come la ragione per un altro e per ogni altro. Esiste una misura di mezzo che soddisfa tutte le parti, per quanto esse siano varie e  determinate a loro stesse. Ogni uomo trova un canone per i suoi più semplici diritti e atti nelle decisioni del suo proprio intelletto, che egli chiama Verità e Santità. In queste decisioni tutti i cittadini trovano un perfetto consenso e soltanto in esse. Non in ciò che è buono da mangiare,  bello da mettere o da usare, né nell’ammontare di terra o di aiuto pubblico che ognuno pretende di affermare come diritto. Tali verità e giustizie gli uomini si sforzano di applicarle alla misurazione della terra, al porzionamento dei servizi, alla protezione della vita e della proprietà. I loro primi sforzi sono senz’altro molto maldestri. Tuttavia il diritto assoluto è il primo governatore, altrimenti ogni governo diventerebbe una sorta di teocrazia impura. L’idea da cui ogni comunità è mossa per fare e migliorare le proprie leggi è la volontà dell’uomo saggio. Quest’uomo tuttavia non si può trovare così nella natura, tanto che si fanno sforzi maldestri, per quanto seri, di assicurare il suo governo per convenzione, come si fa attribuendo all’intero popolo la facoltà di essere ascoltato per ogni singola misura, o quando da una duplice opzione si giunge alla rappresentanza dell’intero, oppure quando si attua la selezione dei cittadini migliori, o anche quando si vogliono assicurare i vantaggi o le efficienze e la pace interna affidandosi al governo di qualcuno, che possa poi scegliere da solo i propri collaboratori. Tutte le forme di governo simbolizzano un governo immortale, comune a ogni dinastia e indipendente dai numeri, perfetto sia dove vi sono due uomini che dove ve ne sia uno solo (Emerson 1910: 103).

 

Come per Platone, la saggezza si trova nel filosofo, che è saggio proprio perché ama la verità e conforma la sua anima (la psiuké) all’ordine della virtù. Allo stesso modo, Emerson indica l’uomo saggio quale riferimento politico di una comunità. La saggezza, per altro, tende alla riduzione all’unità, ed egli ritiene che la dote di uomo saggio o vero Uomo, in grado di secondare le proprie scelte secondo libertà e verità, sia una condizione molto rara (Emerson 1904: 17)[3]. Una società per essere giusta non può quindi contare sul coinvolgimento diretto dell’Uomo saggio, quanto tuttavia, come nelle Leggi di Platone, sulla saggezza dell’uomo. La direzione politica non va quindi necessariamente collocata nel migliore tra gli uomini, ma in chi riesca a ispirarsi alla saggezza espressa dagli uomini migliori.  La conseguenza del ragionamento di Emerson è che non sia necessaria la monarchia né l’aristocrazia per garantire un ordine giusto, ma si possono realizzare delle condizioni, come quella degli Stati Uniti, in cui la libera partecipazione democratica del popolo sia possibile e auspicabile, giusto perché la saggezza dell’uomo è iscritta nel codice genetico del popolo, e il governo migliore è quello che governa meno e che trova come «antidoto al suo abuso» la pubblica influenza del «carattere privato», lo «sviluppo dell’elemento individuale» (Emerson 1910: 104). 

In ogni caso, la storia dell’America è per Emerson il fondamento dell’aspettativa della nascita di un popolo di uomini la cui esistenza è proiettata verso un futuro di progresso e di ottimismo[4]. Del resto, non si potrebbe comprendere come possa essere possibile raggiungere una concordia in proiezione universale se non si presupponesse una convergenza tra le diverse intelligenze verso l’attrazione dei migliori:

 

La ricerca dei grandi uomini è il sogno della gioventù e la più seria occupazione della virilità. Noi viaggiamo in paesi stranieri per trovare le loro opere – e, se è possibile, per intravederli. Ma noi siamo invece abbandonati dalla fortuna. Voi dite: - gli Inglesi sono pratici; i tedeschi sono ospitali; a Valenza il clima è delizioso; e nelle colline; e nelle colline di Sacramento vi è l’oro a portata di mano. – Sì, ma io non viaggio per trovare popoli confortables, ricchi e ospitali, o un cielo limpido, o delle verghe d’oro che costano troppo. Ma se vi fosse una calamita che si dirigesse verso i paesi e le case dove abitano le persone che sono intrinsecamente ricche e potenti, venderei tutto per comperarla, e mi metterei oggi stesso in cammino (Emerson 1904: 2).

 

È proprio la possibilità di ottenere una concordia convergente verso il raggiungimento di un vertice etico e morale, incarnato dalle grandi figure di Uomo, che rende inconcepibile il tentativo di dividere l’Unione: l’armonia della comunità americana è fondata su principi condivisi; la secessione rappresenta una opposizione a tali principi, alla loro universalità:

 

La guerra era tremenda, ma non poteva essere evitata. La guerra era ed è un immenso errore, ma portò con sé l’immenso beneficio di tirare una linea e schierare i liberi stati su di essa fissandone la sua insormontabilità (Emerson 1962: 196).

 

Ammettere la divisione degli Stati Uniti in popoli diversi avrebbe comportato di per sé il crollo di tutti i presupposti cardine della comunità insieme allo stesso individualismo, che si fonda sì sulla eccezionale «importanza data al singolo», ma pure sul rispetto sacrale dell’altro da sé, esemplificato da Emerson nel rapporto che intercorre tra stati sovrani. L’importanza data al singolo è per lui protetta e alimentata circondando l’individuo «con le barriere del rispetto naturale» (Emerson 1962: 147).

 

4. La fiducia e il progresso

 

L’esercizio della sovranità popolare ha quindi per Emerson dei limiti precisi dettati dalla «verità e dalla giustizia» e intellegibili dall’individuo. Le particolari condizioni geografiche, storiche, religiose e antropologiche hanno reso possibile agli individui americani convergere collettivamente su tali principi, tuttavia l’eventuale inosservanza di essi comporterebbe di per sé la rivoluzione dell’ordine stesso e sarebbe un atto di ribellione, anche se fosse condiviso dalla maggioranza del popolo o di una porzione geografica di esso.

L’estensione del suffragio elettorale alle donne, ai neri e a tutti gli immigrati assimilabili al popolo degli Stati Uniti è possibile per Emerson in quanto ogni individuo è capace di abbracciare e fare propri i principi universali sui quali si regge la democrazia americana. Essa non presuppone però in alcun modo  l’affermazione del diritto di voto quale diritto inalienabile. Non si troverà quindi in Emerson nessuna indignazione per il ritardo col quale venne restituita agli uomini del Sud la facoltà di scegliere la propria rappresentanza. Essi l’avevano sprecata approvando la secessione, a differenza delle persone di origine straniera che, nel raggiungere volontariamente gli Stati Uniti, ne avevano condiviso l’ordine politico, strutturalmente universale. Allo stesso modo ai neri non poteva certo essere negato il diritto di concorrere alla rappresentanza, visto che essi sono a pieno diritto parte del popolo americano e lo stesso può dirsi delle donne che, per lui, spesso posseggono «superiori capacità amministrative», come affermò nel 1855 alla Convenzione per i diritti della donna (Emerson 2010: vol. II 28).

Tutti gli uomini, indipendentemente dal sesso e dalla razza hanno «il diritto di avere fiducia» e di «essere amati». La fiducia si può perdere per un certo periodo, come nel caso degli uomini che hanno votato la secessione, ma una società repressiva è decisamente lontana dalla visione di Emerson, il quale pone a «fondamento dello stato» il «potere dell’amore».  Egli ci dice che esso «non è mai stato sperimentato»:

 

Non c’è dubbio che le strade potranno essere costruite, le lettere consegnate e il frutto del lavoro retribuito anche quando si porrà fine al governo basato sulla forza. Sono forse i nostri attuali metodi così eccellenti che non ci può essere con essi concorrenza? Non potrebbe una nazione di amici raggiungere risultati migliori? L’alternativa sarebbe cadere nel più bieco conservatorismo e nelle paura, con una prematura resa alla baionetta e al sistema della forza. Perché, secondo l’ordine della natura, che è decisamente superiore alla nostra volontà, le cose stanno così: ci sarà sempre un governo della forza quando gli uomini saranno egoisti, ma quando essi saranno abbastanza puri da mettere da parte il codice della forza, essi diventeranno sufficientemente saggi dal notare come si possano trovare soluzioni ai problemi degli uffici postali, dei trasporti, dei commerci, dei trasferimenti di proprietà, dei musei, delle biblioteche e delle istituzioni delle arti e delle scienze.(Emerson 1910: 105-106).

 

La società deve quindi fondarsi sulla philìa politikè o, meglio, sui principi della filosofia classica, che Emerson considera la base della repubblica americana e della sua democrazia. Essi quindi costituiscono il fondamento comune da riconoscere per essere parte del popolo degli Stati Uniti. Per farli propri basta, se fosse cosa di facile accessibilità, essere uomini secondo gli elevati canoni dettati da Emerson. Ciò a prescindere dalla razza di provenienza. L’aspetto innovativo, quasi rivoluzionario, sta nell’utilizzare gli strumenti del pensiero di Platone e Aristotele per scardinare ogni forma di conservatorismo politico e di autoritarismo. L’affermazione di principi etici oggettivi e permanenti è tuttavia tutt’altro che negata, anche se non trova conferma nelle sedimentazioni storiche di una tradizione, quanto nella ragione e nella saggezza dell’Uomo: è questa saggezza che, dice Emerson, scardina le strutture di oppressione e di sfruttamento insieme alla paura e all’ignoranza che le ha generate.